Mark Knopfler - River Towns - Mark Knopfler's World

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Testi e traduzioni


Mark Knopfler
Tracker

Pubblicazione: 17 marzo 2015
Durata: 60 min : 34 sec
Tracce: 11
Etichetta: Mercury, Verve
Produttore: Mark Knopfler e Guy Fletcher
Registrazione: British Grove Studios (Londra), 2013-2014
Formati: CD, LP



Bonus tracks Deluxe Edition

Bonus tracks Limited Edition Box
Oklahoma Ponies (traditional, con liriche di Knopfler) - 5:19

Bonus track Edizione tedesca
Hot Dog - 2:53


A cura di Francesco Moretti

Tante delle città in cui ho risieduto sono città di fiume, da Glasgow a Newcastle, da Londra a New York. Credo non riuscirei a stabilirmi in nessun altro posto che non sia una città di fiume.

Ve la ricordate, questa?
No?
Va beh, tenetela da parte, ci torneremo più tardi.

“River Towns è un’altra canzone-ritratto.
Tratta di un giovane, che di mestiere fa il secondo su un rimorchiatore navigante sui fiumi dell’America Centro-Occidentale, scritta da un autore che ho scoperto di recente, che si chiama Breece D’J Pancake

Come, come? Breece D’J chi? E poi “D - apostrofo - J” cosa diavolo vuol dire? Andiamo per ordine.

Il Nostro si riferisce al novellista americano Breece Dexter Pancake, nativo di South Charleston, in Virginia Occidentale, dove vide la luce il 29 Giugno del 1952.
Fu cresciuto a Milton, una cittadina di quello stesso stato, e studiò alla Marshall University, dove prese una laurea triennale in Inglese nel 1974.
Dopo la laurea, frequentò con successo un corso di scrittura creativa presso la University of Virginia, tenuto dagli scrittori John Casey e James Alan McPherson, oltre a lavorare come insegnante di Inglese presso le accademie militari di Fork Union e Staunton.
Il suo carattere estremamente complesso e tumultuoso, che lo portava spesso ad isolarsi dagli altri, influenzò fortemente il suo stile di scrittura, come ebbe a dire, infatti, il suo conterraneo e professore di Letteratura Americana Ruel Foster (che curò la recensione della biografia di Pancake):

Sembrava che Pancake volesse, con la sua scrittura, cercare di esorcizzare qualche trauma psichico a noi sconosciuto, e risulta chiaro che le rovine di quel mondo corrotto, ritratte nelle sue storie, provenivano dal mondo disperato e tormentato della sua vita interiore.”

Le sue storie, infatti, sono ambientate e trattano delle miserie inerenti il suo stato di nascita, la Virginia Occidentale, e sono costellate di episodi di guerra, lavoro in miniera, sogni non avveratisi, sesso dettato dall’istinto e non propriamente legale, desideri così forti da minare la sanità mentale di una persona, e ricordi che saltano fuori all’improvviso, micidiali come attacchi di cuore.
Il tutto condito da una rabbia soppressa così a lungo da esplodere, urlante, in tutto il suo furore.
Il suo ricordo, riportato dalla novellista Samantha Hunt, dice tutto:

“Breece non lasciò dietro sé che un volumetto di prosa, dodici novelle devastanti quanto la propria sorte.
Nonostante questo, è entrato nel mito, in parte perché lasciò ben poche persone avvicinarglisi abbastanza per sapere la verità, in parte perché creare leggende era ciò per il quale era nato.
Pancake assomigliava più ad un personaggio dei suoi racconti, piuttosto che a colui che li scriveva.
Provate a pensare alle iniziali “D’J”.
Non volle mai correggere quell’errore e, anzi, lo adottò come suo segno di riconoscimento, come un vezzo aristocratico.
La sua testarda nobiltà, il suo astuto senso dell’umorismo, uniti al suo carattere, sarebbero stati perfetti per il personaggio principale di un romanzo.
Senonché lui era una persona reale.

Questi brevi racconti vennero pubblicati, in buona parte, dalla rivista progressista americana “The  Atlantic”, il cui errore di stampa nello scrivere le iniziali del secondo e terzo nome dell’autore, come ricordato dalla Hunt, creò il sopracitato vezzo, che Pancake non volle mai correggere, di firmarsi “D’J” (Dexter era il suo secondo nome, e John, il terzo, fu scelto personalmente da Pancake dopo la sua conversione al Cattolicesimo, avvenuta poco dopo i vent’anni).

La sua travagliata e, ahimè, breve esistenza, venne tragicamente interrotta da un colpo di fucile che, a quanto pare, egli stesso si sparò, ponendo fine ai propri tormenti a soli 26 anni di età, con il Nostro che commenta in questo modo la sua dipartita:

La cosa mi ha distrutto. Un così grande talento andato sprecato. Lui avrebbe potuto avere un grande futuro.”

E dal ricordo della lettura di una delle sue dodici storie brevi, intitolata “A Room Forever”, il Nostro trae l’ispirazione per “River Towns”.
Il narratore e personaggio principale è, come detto all'inizio, un giovane uomo, praticamente solo al mondo, di mestiere secondo sulle navi, che si trova in città, in attesa dell’arrivo del “Delmar”, il rimorchiatore sul quale salperà per un mese di lavoro intensivo.
Per questo motivo, ed anche per via del fatto che è Capodanno, il protagonista dà fondo, si fa per dire, ai suoi risparmi, e decide di affittare la stanza migliore, anche qui si fa per dire, di uno squallido albergo/bordello, al prezzo di, udite udite, ben otto dollari a notte.
D’altronde, quello è tutto il lusso che quell’uomo può permettersi, se si pensa che la sua vita, fin lì, è stata sempre vissuta barcamenandosi tra lavori saltuari, spesso chiedendo porta a porta, a volte anche solo per un boccone ed un sorso di birra.
Un albergo nel quale quest’uomo vede circolare prostitute, anche minorenni, e travestiti (uno di essi gli augura “Buon Anno” e gli fa l’occhiolino, suscitando la sua reazione rabbiosa), donne grasse e uomini vecchi.
Non vorrebbe starci, ma, come recita un versetto del brano, sente che quella è l’unica casa che ha.
E che, forse, come dice il titolo della storia, quella stanza gli appartiene, per sempre.
Questo è, grossomodo, il sunto delle prime due strofe della canzone del Nostro, musicata con grande delicatezza, in pieno contrasto, come spesso Knopfler ci ha abituato, con il contesto trattato nei versi.
Ma chi, di voi, si aspetta un andamento per il meglio, un lieto fine, sappia che aspetterà invano.
Difatti, la seconda parte della storia e, di conseguenza, le due ultime strofe della canzone, vedono il nostro protagonista uscire per cena, tornare all’albergo con una bottiglia di whisky scadente per brindare all’anno che verrà e, peggio ancora, con una ragazzina di quattordici anni, incontrata per strada, all’ombra di un portone, in ovvia attesa di clienti.
Dopo aver scambiato due parole a malapena, consumato in fretta il disgustoso atto sessuale, si rende finalmente conto che si tratta di una ragazzina, e si offre di ospitarla a sue spese, per sdebitarsi, nella sua stanza di albergo per un mese intero.
Con la ragazzina che, per tutta risposta, esclama:

Ma perché non chiudi quella fottuta boccaccia e mi paghi, invece, okay?”

Eh beh, si cresce molto in fretta, quando si vive in miseria.
Lui paga e lei fugge dalla stanza di corsa.
E questa risposta inaspettata, da donna vissuta racchiusa in un corpo da adolescente, finisce per disturbare il protagonista, toccandogli evidentemente un nervo scoperto, e facendolo guardare allo specchio in preda alla vergogna.
Il brano termina risparmiandoci la fine del racconto, con il protagonista che esce ancora, ri-incontra la ragazzina in un bar malfamato, dove la osserva in distanza.
Lei è già ubriaca, lui si chiede se lei si renda conto di non poter reggere, sia tutto quell’alcool che la vita brutta che sta facendo.
Dopodiché ordina anche lui da bere e, quando si accorge che lei ha lasciato libero il suo sgabello, la segue, attraverso la porta sul retro.
Per trovarla in un vicolo scuro, con i polsi tagliati, immersa in una pozza del suo stesso sangue, pensare addirittura di buttarla nelle fognature che sfociano in mare, poi scegliendo invece di chiamare la polizia, ringraziando il cielo di non essere sceso così in basso, e sparire.
Tragedie di vita, storie grame di poveri cristi, scritte da uno, più o meno, come loro, aventi come scenario città di fiume.
Anzi, pietose città di fiume.
E qui torniamo all’affermazione iniziale del Nostro, rilasciata anni prima, in una delle interviste inerenti l’album “Privateering”.
Cosa c’entra con tutto questo?
C’entra, perché il Nostro, in città in riva al fiume, ci è nato (Glasgow), vissuto per anni (Newcastle), trasferito per il suo lavoro (Londra) e soggiornato a lungo, sia per lavoro che per diletto (New York), e a queste città è profondamente affezionato, nonostante tutto.
E, sebbene senza la tragicità del racconto appena esaminato, storie di vita simili a queste ne ha viste, ed anche narrate nei suoi testi.
Un esempio? Non ricordate “Wild West End”, con il gioco d’azzardo pesante nella stanza sul retro a Chinatown, o con la piccola Mandy, danzatrice in un locale, “gentilmente offerta” alla clientela?
Oppure le storie di gioventù narrate in “Down To The Waterline”, con amori giovanili consumati all’ombra delle navi-cargo, con pochi soldi in tasca, i jeans strappati, ma tanta, tanta passione?
Ed è per questo che, almeno a mio parere, non è azzardato pensare che il Nostro si possa immedesimare in un Pancake che ce l’ha fatta, con un po’ meno rabbia e senza la misoginia dell’originale, ma pur sempre uno che, con la non sempre romantica esistenza nelle “pietose” città in riva al fiume, ha sempre avuto a che fare, ed ora può raccontarlo.
Anche se lui afferma diversamente.
Sull’ispirazione per “River Towns”, il Nostro, infatti, dichiara:

È la solitudine di questo ragazzo nel periodo delle feste, che mi ha ispirato maggiormente, ed in un certo qual modo mi suona familiare.
Ricordo, infatti, quando ero molto giovane, di aver suonato in un concerto a Penzance, in Cornovaglia, in una band di cui nemmeno ricordo il nome.
Bene, era il giorno di Natale ed io stavo tornando a casa in autostop, era così che viaggiavo a quel tempo.
Venni fatto scendere dall’autista che mi aveva raccolto, e che doveva andare altrove, su una rampa dell’autostrada.
C’era neve tutt’intorno, nessun’anima viva oltre al sottoscritto per chilometri e chilometri, in prossimità del tramonto.
Ecco, lì ebbi la percezione molto chiara della scelta di vita che avevo fatto, stando in piedi sotto la neve, io, la mia borsa e la mia chitarra, in totale solitudine.
Per cui, credo che “River Towns” abbia, più che altro, a che vedere con il problema della solitudine, e di quanto ci si possa rendere conto, anche leggendo un grande racconto come quello, di quanta ce ne sia in questo mondo.

E noi ne prendiamo atto, ma siamo sicuri si tratti solo di quello?

Al prossimo ricordo.

Ps:

Ah, scusate.
Tenete in mente anche quest’ultima spiegazione del Nostro.
Potrebbe servirvi in futuro.
In un futuro molto prossimo…


Città di fiume

Sono arrivato tre giorni prima,
per non mancare l’appuntamento con la mia barca,
non è una vita agiata, la mia (1),
ma riesco a mantenermi a galla.
C’è calma sotto Natale,
se non hai un posto dove andare,
ho preso casa tra la gente di fiume (2),
l’unica casa che io conosca.

Mi son trovato uno schifo di albergo,
e sono in strada dalle nove in poi,
per rimediare un po’ di cibo e bermi una birra,
magari chiedendo pure porta a porta.
Queste sgualdrinelle ti porteranno via tutti i soldi,
ricatteranno i giovani fino ad estorcergli tutto,
è la stessa cosa in ognuna di queste
pietose città di fiume (3).

Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.
Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.

Mi son comprato una bottiglia,
per portarmela in camera,
quando ho visto una ragazzina, in piedi
sotto un portone nell’oscurità.
Abbiamo a malapena attaccato discorso,
il solito, vecchio scenario,
e ho lasciato che lei facesse il suo mestiere,
giù, in riva all’Ohio.

Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.
Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.

Quando le ho domandato se avesse gradito rimanere,
è corsa giù dalle scale in fretta,
non le ho mai chiesto com’è che ha cominciato,
con questi squallidi giochetti giù al fiume.
Così ho stappato la bottiglia,
ma qualcosa ha urtato un nervo scoperto,
e così sono qui a guardarmi allo specchio,
alla faccia che merito di avere.

Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.
Città di fiume, pietose città di fiume, città di fiume.


Lyrics

River Towns

I came in three days early,
to meet my boat,
it ain’t the life of Riley (1),
but it’s keeping me afloat.
It’s quiet over Christmas,
if you got no place to go,
i got my home from river rats (2),
the only home i know.

I found myself a flophouse,
and i hit the streets at nine,
get some grub and drink a beer,
maybe go down the line.
These chips will take your money,
shake a young man down,
it’s the same in every one of these
sorry river towns (3).

River towns, sorry river towns, river towns.
River towns, sorry river towns, river towns.

Well, i picked me up a bottle,
to take back to the room,
then i saw a young girl, standing
in a doorway in the gloom.
We’d hardly started talking,
the old scenario,
and i just let her work me over,
down by the Ohio.

River towns, sorry river towns, river towns.
River towns, sorry river towns, river towns.

When i asked if she’d like to stay,
she was down my stairs so quick,
i never asked what got her started,
with the sorry river tricks.
So i get the bottle open,
but something’s hit a nerve,
and i’m looking in the mirror,
at the face that i deserve.

River towns, sorry river towns, river towns.
River towns, sorry river towns, river towns.


(1) Non è una vita agiata, la mia… (It ain’t the life of Riley…):
Sull’origine di questa espressione, il cui significato è “una vita comoda, agiata e senza preoccupazioni”, ci sono ancora dubbi, così come sulla sua corretta dicitura, che parrebbe essere “the life of Reilly”, e non “Riley”.
Utilizzata spesso a partire dal periodo della Prima Guerra Mondiale, parrebbe trarre origine (il condizionale è d’obbligo) da una vecchia ballata irlandese, datata 1899, intitolata “Willy Reilly”, che parla delle peripezie del protagonista, un giovane contadino cattolico che si innamora, corrisposto, di una ragazza di buona famiglia protestante, e dopo essere stato incarcerato per rapimento (i due erano scappati insieme), riesce a provare la sua innocenza, a sposare la ragazza ed a trovare serenità e ricchezza tra le sue braccia.
Sarà la spiegazione giusta? Boh, però è quella più attendibile…
(2) …la gente di fiume… (…river rats…):
L’espressione sta ad indicare persone di origini umili e classe sociale bassa, che vivono sul fiume, oppure sulle rive di esso.
(3) L’intera seconda strofa (così mi viene meglio…):
“Flophouse”, oppure l’abbreviativo “Flop”, utilizzato da Pancake nel suo racconto, sta a significare un albergo economico, di qualità scadente e di frequentazioni spesso equivoche.
La parola “Grub” è un termine gergale, rappresentante genericamente il cibo, che si usa nelle frasi fatte, come quella del versetto in questione, traducibile con termini similari in italiano (un po’ di cibo, un boccone, un piatto di minestra, ecc.).
L’espressione “To Go Down The Line” significa “andare da persona a persona, oppure di cosa in cosa” e, nel contesto del versetto che la ospita, rappresenta efficacemente l’andare di porta in porta del protagonista del racconto, in cerca o di lavoretti saltuari, oppure di un po’ di carità, sottoforma di cibo e/o bevande.
Ed ora arriviamo al clou.
Mi riferisco alla parola “Chips”.
Significante “patatine fritte, fiches da casinò, schegge, frammenti, e addirittura pezzi di letame secco o colpi di approccio con traiettoria a campanile, nello sport”.
Tutto bene, vero?
No, per niente.
Quei significati, nel contesto di quel verso, non mi hanno mai convinto, in quanto non potevano essere semplici oggetti a compiere le azioni di portare via tutti i soldi ad una persona o ricattarla, a scopo di estorsione.
Doveva trattarsi, per forza, di altre persone, ma non avevo alcuna prova di questo.
E allora via, ricerche su ricerche in Rete, con tantissimi tentativi infruttuosi.
Finché, all’ennesima stringa digitata su Google, ecco apparire il sito believermag.com, con l’anteprima della seguente frase:

“I need a woman, not just a lousy chip.”
(“Ho bisogno di una vera donna, non di una schifosa puttana.”)

Bingo!
Quando si dice un colpo di fortuna!
Ho cliccato, ed ecco apparire un articolo chiamato “The Secret Handshake”, descrivente non solo Pancake, ma anche le stesse scene del racconto ritratte dal Nostro nella canzone, con la ragazzina quattordicenne descritta come “a chip who is brand new to the occupation”, ovvero “una sgualdrinella nuova del mestiere”!
Ed ecco che, quindi la parola “Chips”, in quel contesto, forse (e sottolineo forse) derivata da un qualche dialetto parlato in Virginia Occidentale, prende il significato di “prostitute, sgualdrine, puttane”.
Cosa voglio dire, con questo?
Che la comprensione del contesto, in questo che, comunque, è un hobby ed un piacere, è qualcosa di più che essenziale, e che, per questo, non bisogna mai avere fretta di portare a termine i lavori di traduzione, perché l’errore (ed a me è capitato eccome, in modo palese almeno due volte, e mi è stato pure, e giustamente, fatto notare) è sempre lì, dietro l’angolo.
Basta veramente poco, perché accada.
E quando accade, ci si rimane inevitabilmente male.
Specialmente quando si conosce,per averlo provato sulla propria pelle, tutto il lavoro che serve per assemblare qualcosa, anche solo a malapena, leggibile.
È un piccolissimo consiglio che mi sento di dare a voi, che mi leggete, e che magari, chissà, potreste avere voglia di cimentarvi, come ora faccio io.
Un consiglio non certo da insegnante (non ho nessunissimo titolo per farlo), ma da semplice appassionato del Nostro, come tutti voi.


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