A cura di Francesco Moretti
Quinta tappa del viaggio, ed il protagonista è un pezzo da novanta non solo della musica, ma della storia del mondo dello spettacolo.
Elvis Aaron Presley nasce a Tupelo, stato del Mississippi, l’otto gennaio del 1935, e lì, in tenera età, comincia ad entrare in contatto con il mondo della musica, grazie ai genitori, assidui frequentatori delle funzioni cristiane pentecostali chiamate “Assemblee di Dio americane”.
Viste le precarie condizioni economiche (sia il padre che la madre non avevano un’occupazione fissa, e sbarcavano a malapena il lunario svolgendo lavori precari), la famiglia Presley decide di trasferirsi a Memphis, nel Tennessee, città che stava, a quel tempo, godendo di un notevole sviluppo economico.
In quella città, il giovane Elvis ebbe modo, soprattutto ascoltando le esibizioni dei bluesmen di Beale Street (soprattutto B.B. King e Furry Lewis), di appassionarsi allo stile di musica da loro proposto, approcciandosi in modo recettivo e disinvolto alle diverse culture musicali, cosa che lo avrebbe aiutato parecchio a raggiungere il successo.
Non mi addentrerò ulteriormente nella descrizione della vita e delle opere, per arrivare, invece, al contesto della canzone.
Che vede, invece, un Elvis già strafamoso, appena reduce dalle riprese dell’ennesimo film di cassetta (“Clambake”, è l’anno 1967), già da anni nelle salde mani (artigli?) del Colonnello Parker, suo storico manager e, probabilmente, già in preda a quel male di vivere che lo porterà, in seguito, al calvario personale.
Le parole del Nostro, presentando questa canzone, sono profetiche o quasi:
“Credo di aver scoperto gradualmente, da ragazzino, che Elvis volesse diventare una stella di Hollywood, oltre che un cantante. Non riuscii subito a capire quanto fortemente lo volesse. Mi ha sorpreso molto imparare che ci sono impresari musicali di oggi che ammirano il suo manager, il Colonnello Parker, e migliaia di giovani d’oggi che vogliono diventare famosi a tutti i costi, spesso solo per il gusto di diventarlo, probabilmente molti di più ora di quanto ce ne siano stati in qualsiasi epoca, nel passato.”
È giusto e sacrosanto indicare le colpe del suddetto colonnello nella gestione militaresca e maniacale della carriera di Presley, trasformato dal rocker ribelle di “Jailhouse Rock” che era, ad un prodotto per famiglie, di facile e rapida consumazione, stravolgendone la vera essenza, distogliendolo da quello che sapeva fare meglio, il cantante rock, per farlo recitare in film via via sempre più scadenti, che gli rovinavano l’immagine, le cui trame, parafrasando la canzone, “non suonavano vere”.
Presley, di suo, purtroppo, non fece nulla per spezzare l’ingombrante cordone ombelicale tra lui e Parker, forse per gli innegabili vantaggi economici che quest’ultimo gli garantiva.
Ed infatti, l’Elvis che vediamo nella canzone è già affetto da quella fame bulimica di successo che lo porterà ad abusare dei più svariati farmaci, dagli stimolanti ed anfetamine per aumentare le prestazioni e diminuire il senso di fatica, fino ai barbiturici ed ai tranquillanti, in dosi sempre più massicce, per permettergli di poter dormire qualche ora durante le notti, allo scopo di recuperare.
Abusi che lo porteranno alla morte, avvenuta il sedici agosto del 1977.
Uno Shangri-La triste e doloroso, per un artista con la A maiuscola, divenuto cavia dello show business, senza avere, salvo rare prese di posizione, la capacità di smarcarsi dai suoi veleni.
Ritorno a Tupelo
Più o meno ai tempi di “Clambake” (1), il film numero venticinque, tu e l’Olandese Bugiardo (2) siete ancora in iperattività. Vai forte come quando hai cominciato, hai il Mississippi dentro all’anima.
Puoi ancora essere sia Marlon Brando, che il Re Del Rock And Roll.
Non ci sono soltanto i dischi, no, devi conquistare anche Hollywood,
le canzoni, da sole, non ti bastano, e questo si è capito.
Tornerai presto a Memphis, forse allora saprai cosa fare.
Le trame dei film che ti danno, semplicemente non suonano vere.
Oh, è molto lunga, la strada di ritorno a Tupelo,
è molto lunga, la strada di ritorno a Tupelo.
Quando sei giovane e bello, i tuoi sogni sono tutti degli ideali.
In seguito, però, non è più lo stessa cosa, o Signore, tutto quanto è reale.
Milleseicento miglia di autostrada, un ritorno alla realtà.
E una canzone da dedicare a tua madre (3), nel tuo primo studio di registrazione.
Più o meno ai tempi di “Clambake” (1), rincorri ancora quell’antico sogno. A volte ti sorgerà il dubbio che qualcosa stia andando storto.
Venere si sta offuscando (4), mio Dio, il Mississippi è gelido. Puoi ancora essere sia Marlon Brando, che il Re Del Rock And Roll.
Ma è molto lunga, la strada di ritorno a Tupelo,
è molto lunga, la strada di ritorno a Tupelo.
Lyrics
Back to Tupelo
Around the time of “Clambake” (1), movie number twenty-five, you and the Lying Dutchman (2) are still in overdrive. You are as strong as when you started, Mississippi in your soul.
You can still be Marlon Brando, and the King Of Rock And Roll.
It isn’t just the records, no, you must have Hollywood,
the songs alone are not enough, that much is understood.
You’ll soon be back in Memphis, maybe then you’ll know what to do.
The storylines they’re giving you are just not ringing true.
Oh, it’s a ways to go, back to Tupelo,
it’s a ways to go, back to Tupelo.
When you’re young and beautiful, your dreams are all ideals.
Later on it’s not the same, Lord, everything is real.
Sixteen-hundred miles of highway, roll back to the truth.
And a song to give your mother (3), in your first recording booth.
Around the time of “Clambake”(1), that old dream’s still rolling on. Sometimes there’ll be the feeling things are going wrong.
The morning star is fading (4), Lord, the Mississippi’s cold. You can still be Marlon Brando, and the King Of Rock And Roll.
But it’s a ways to go, back to Tupelo,
it’s a ways to go, back to Tupelo.